
Ci piace condividere con tutti i lettori del blog una lettera che un giovane scrittore e professore di liceo ha scritto per avvenire.it. Una semplice lettera che vuol essere non solo un ringraziamento per il prezioso quanto difficile ministero svolto in questi anni, ma anche un augurio e una dimostrazione di vicinanza spirituale.
Caro Papa, manca un accento all’ultima lettera di questo tuo nome, Papa, e verrebbe fuori un’altra parola. La parola che ogni figlio pronuncia migliaia di volte nella vita e che un figlio di Dio ha la fortuna di pronunciare molte più volte perché, alla fine, la vita cristiana è imparare a dire abbà, papà, a Dio.
Alla notizia della tua rinuncia ho avuto paura. Ho provato lo stesso dolore per la morte di Giovanni Paolo II: allora avevo 28 anni e mi sentii orfano, piansi come chi ha perso un padre.
Lunedì mi è successo lo stesso. Mi sono sentito orfano. Tu avevi deciso di non essere più Papa. Un altro padre mi veniva meno. È il dolore di un figlio che ha ricevuto moltissimo. Ho seguito il tuo pontificato sin dal momento in cui ti sei affacciato per la prima volta dal balcone (abitavo a Roma allora). Ho letto i tuoi scritti, mi sono nutrito delle tue parole sempre profonde e stranamente semplici per un professore di teologia, perché fondate sul rapporto vero con Dio (quanto gelo nelle parole di alcuni pastori che capita di ascoltare...).
In questi anni in cui la fede è spesso messa alla prova, dileggiata, fraintesa, tu hai fatto da parafulmine a molte critiche. Le hai prese tutte su di te. Non te ne importava niente di essere colpito. Sono beati quelli che vengono colpiti a causa di Cristo e chissà quanta della sporcizia che c’è nella Chiesa è stata gettata su di te per il fatto di essere quel padre di famiglia che è il Papa. Tu hai sempre dimostrato e chissà con quanto dolore, dal discorso di Ratisbona a quello sul matrimonio, che l’unico consenso che ti interessa è quello di tuo Padre Dio, cioè della verità, del logos.
Per questo ho avuto paura quando hai annunciato la tua rinuncia. Sul momento mi è sembrato un tirarsi indietro. Se ti tiri indietro anche tu, che sei il Papa, che fine facciamo noi? Ho ripensato a una tua frase che mi porto nel cuore: «Fedeltà è il nome che ha l’amore nel tempo». Me la ricordo tutte le volte che il mio e l’altrui amore è messo alla prova e devo aggrapparmi con tutte le forze all’Amore che muove tutti gli altri amori, oltre che il sole e le altre stelle. In questi anni la mia fede si è rafforzata grazie a quel logos cortese, fermo e caldo che tu sai infondere alle parole che usi, come (tanto per fare un esempio) queste che ho letto qualche giorno fa: «Dio, con la sua verità, si oppone alla molteplice menzogna dell’uomo, al suo egoismo e alla sua superbia. Dio è amore. Ma l’amore può anche essere odiato, laddove esige che si esca da se stessi per andare al di là di se stessi. L’amore non è un romantico senso di benessere. Redenzione non è wellness, un bagno nell’autocompiacimento, bensì una liberazione dall’essere compressi nel proprio io. Questa liberazione ha come costo la sofferenza della Croce». Ripensando alla tua frase, leggendo queste parole, le tue 'dimissioni' mi sembravano incomprensibili e mi hanno gettato nello sgomento.
Mi sono sentito solo. A che serve difendere la propria fede se poi anche il Papa si tira indietro. Poi a poco a poco l’emotività ha lasciato lo spazio al logos appunto, alla verità, a Cristo, e una grande pace è tornata nel cuore. Dovevo andare oltre il codice di interpretazione soggettivo, emotivo, mondano. Rinunciare rappresenta un fallimento per il mondo, è un gesto di debolezza per il mondo, nel quale si 'è' solo se ci si afferma, a ogni costo. La logica della debolezza non è del mondo. Del mondo è la logica del potere e dell’egoismo. Per questo il tuo gesto è un gesto di libertà dall’io e non di fuga da Dio, nel quale ti vuoi rifugiare del tutto per continuare a sostenere la Chiesa più e meglio.
Con questo gesto fai trionfare una logica diversa, un logos diverso. Quello di chi sa che la sua preghiera silenziosa vale tanto quanto la sua azione, e lascia quest’ultima a chi può meglio di lui portarla avanti. Doveva suonare allo stesso modo, fastidiosa e inspiegabile, la frase di Cristo ai suoi: «È bene che io me ne vada perché venga a voi un altro consolatore».

Alessandro D'Avenia
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