L'AMORE FRATERNO - Don Divo Barsotti
Venezia (28-29 marzo 1958)
Di fatto, l'uomo, se si ferma in se stesso, come può parlare di Dio?
Se vuole avere come prova dell'azione divina quello che egli sente o vede o gusta nell'intimo, come può essere certo di un'azione divina? L'origine divina vuol dire risalire a un principio che non è in noi, ma fuori di noi. Non può essere mai criterio di assoluta certezza di operazione divina quello che l'anima prova in se stessa; nessuna gioia che l'anima prova in sé può esser segno, nessuna pace o dilatazione interiore, nulla di quello che l'anima vive in se stessa, perché fintanto che l'anima vive in sé non tocca Dio - l'anima deve uscire da sé per incontrarsi con Colui che veramente essa non può comprendere né abbracciare, per arrivare a Colui che sempre la trascende. Dio che è principio di operazioni nell'anima è un principio però che è al di fuori dell'anima stessa. Si può dire, sì, che Dio è un principio più intimo a noi di noi stessi, ma di un'intimità che lascia immutata la sua trascendenza, lascia immutato cioè il balzo necessario fra la creatura e il Creatore: fra la creatura e il Creatore rimane un abisso.
Uno è il segno fondamentale e più certo dell'azione dello Spirito nell'anima nostra, e senza questo tutti gli altri segni non possono darci certezza, dare garanzia all'anima di una origine divina.
Qual è questo segno?
È l'amore per il prossimo.
La carità cristiana, sia che si diriga verso il prossimo, sia che si diriga verso un figlio, rimane sempre vita di Dio nell'anima, una manifestazione, una prova di una nostra partecipazione alla vita di Dio, perché Dio è l'Amore; e se amiamo di questo amore soprannaturale, è Dio che ama in noi.
Molto spesso si dice di amare il prossimo per Iddio. Ora, molti laici non accettano questo amore. La ripugnanza che provano i laici e i laicisti per la carità cristiana è giusta? È giusta perché noi presentiamo la carità verso il prossimo in un modo che non è cristiano. Noi dobbiamo servirci delle cose per giungere a Dio, tutte le creature sono mezzo all'unione, sono mezzo al raggiungimento di Dio, ma il prossimo non è un mezzo, non lo è nemmeno nei riguardi di Dio. Nella vita futura non soltanto ameremo Dio, il nostro rapporto con Lui non sarà un rapporto così personale da essere anche segreto; ma in questa vita noi realizzeremo la nostra unione con Dio nella misura che realizzeremo l'unione con tutta la Chiesa. La vita futura si presenta nel dogma cattolico sotto il segno della Chiesa trionfante.
Questo ci dice che il prossimo,anche nella carità, non è un mezzo per raggiungere Dio, rimane un fine. Io amo ciascuno unicamente per quello che ciascuno è: per quello che ciascuno dovrebbe essere fintanto che viviamo quaggiù sulla terra, per quello che ciascuno è quando saremo giunti nel Cielo. Poiché devo amare ciascuno per quello che deve essere, non posso fare differenza nell'amore, perché ciascuno di noi è chiamato all'unione divina e a trasformarsi nel Cristo. Anche se uno è cattivo, anche se uno è non soltanto fuori dalla Chiesa, ma contro la Chiesa, io debbo amarlo ugualmente, perché fintanto vive quaggiù può venire anche per lui la conversione e la salvezza, devo vedere che Cristo è morto per redimerlo, per salvarlo, devo vedere che Cristo lo vuole salvo.
L'amore del nostro prossimo ha dunque un valore di fine. Le virtù morali (la purezza, l'obbedienza, l'umiltà) sono sempre un mezzo: noi siamo obbedienti, siamo umili, siamo casti unicamente perché queste virtù sono condizione alla vita divina, al possesso di Dio. L'amore del prossimo, invece, ha ragione di fine: io lo amo perché lo amo, non pretendo nulla, non pretendo che il prossimo debba servire a me, ma mi dono totalmente a ciascuno dei miei fratelli.
Ora, ecco quello che importa quando si parla di amore del prossimo: dobbiamo considerare non soltanto che questo amore ha carattere di fine, devo considerare l'oggetto di questo amore e anche le proprietà di questo amore che, oltre che avere ragione di fine, esige dall'uomo il dono totale.
Quando una cosa è mezzo può servirmi soltanto nella misura che mi serve: io non posso portare, per esempio, la purezza troppo oltre, per non nuocere ai rapporti col prossimo - se io per voler essere fedele alla castità, alla purezza, volessi rompere qualunque mio rapporto con i fratelli, praticamente non sarei più virtuoso, la mia purezza sarebbe contro la carità, mi allontanerebbe da Dio. È sempre un difetto se si amano queste virtù eccessivamente, sì che non siamo più mezzo per l'amore, ma un ostacolo alla carità, come può essere una purezza che irrigidisce, che raffredda i rapporti.
In questa materia ci sono delle concezioni molto sbagliate fra i cristiani: è difetto , come mancare alla purezza, così il volerla perseguire a dispetto della carità. In tanti sacerdoti, in tante suore, proprio per un culto della verginità, c'è un disprezzo del matrimonio, del rapporto dell'uomo con la donna - quante volte l'ho sentito io da anime religiose! Non è cristiano un culto della purezza che venga a misconoscere la grandezza e la dignità del Sacramento del Matrimonio; così un'umiltà che porti alla servilità nei rapporti verso gli altri non è Cristianesimo.
Il cristiano rimane cristiano, riamane figlio di Dio, umile sì, ma anche consapevole della propria grandezza. Le virtù morali sono mezzo; essendo mezzo io debbo usarne nella misura che queste virtù contribuiscono ad alimentare in me l'amore. Solo la fede, la speranza e la carità non conoscono mai un eccesso - ci può essere un eccesso nella credulità, non nella fede. Credulità vuol dire credere tante cose; fede vuol dire credere soltanto nella parola di Dio. Quando tu credi alla parola di Dio mai la tua fede può essere troppa. È Dio che ti parla, di fronte a Lui mai tu puoi avere dei diritti di indipendenza.
Così è per quello che riguarda la speranza. Mai tu puoi avere ragione di dubitare della divina parola; puoi dubitare di te, dubitare di meritare l'adempimento di queste promesse, non della fedeltà di Dio alla parola che Egli ha dato. La tua speranza può essere sempre più certa, sempre più viva, sempre più profonda.
Ma la proprietà dell'amore per il prossimo è questa: è virtù teologale, non è virtù morale, non ci sono limiti all'amore del prossimo. Di fatto, l'amore del prossimo può conoscere soltanto una misura, quella della nostra morte. Tu puoi dire di aver adempiuto la legge cristiana quando sei morto per l'ultimo brigante che esiste quaggiù sulla terra, quando hai dato tutto al tuo prossimo, anche il più lontano. Nel Cristianesimo tu non ami gli altri in forza dei loro meriti, in forza della loro dignità, delle loro virtù, ma in quanto una vocazione divina che è universale chiama tutti e ciascuno alla salvezza. Perciò il tuo amore non ha limiti; non soltanto non può aver limiti riguardo alle persone - deve rivolgersi a tutti - ma non può avere nemmeno misura da parte tua; cioè, essendo esso una virtù teologale, tu devi essere disposto a donare tutto, e non soltanto quello che hai, ma anche il tuo corpo, impegnare la tua stessa anima.
L'amore del prossimo raggiunge la sua manifestazione più alta (non parlo di Cristo, ma dei santi) nella preghiera di Mosè e nelle preghiera di Paolo: "Desideravo essere io anatema per i miei fratelli" - "O salva il mio popolo o cancella anche me dal libro della vita". L'amore del prossimo giunge anche a questo: a compromettere in qualche modo, naturalmente per amore ( e allora l'amore non comprometterà nulla perché l'amore ti salva), almeno per la nostra esperienza umana, la nostra stessa salvezza eterna, cioè la nostra anima per la salvezza degli altri. Come si diceva questo atto è assurdo, perché se tu lo fai per amore non comprometti nulla, anzi è proprio quell'amore che manifesta che Dio vive in te, perché proprio in questa preghiera di Paolo si manifesta che vive il lui Cristo Signore e tutto il Paradiso vive nel suo cuore - invece di condannarlo queste parole lo fanno entrare diritto in Cielo, perché è l'amore puro, l'amore perfetto che in queste parole si manifesta.
Paolo non le dice per scherzo: tanto ama che sarebbe disposto a sacrificare la sua felicità personale anche eterna per la felicità del popolo suo. Non si può sentire diviso da quelli che ama.
Qui le esigenze dell'amore del prossimo si manifestano certo estreme: dare tutto, ecco quello che importa l'amore del prossimo. È amore teologale. Tu puoi crescere giorno per giorno nell'amore del prossimo senza mai temere di andare oltre il giusto - non c'è giusto, qui, non c'è un limite di giustizia: l'amore vince la giustizia, super qualunque limite. Non puoi amare troppo.
Certo questo amore non è eros, non è desiderio: si ama anche fra gli uomini, ma l'amore umano è desiderio, è amore di concupiscenza, si ama sempre con qualche intento egoistico, si ama sempre per noi. Amore umano vuol dire attrarre a sé gli altri, anche nella propria famiglia, sentirsi bene con questi; si ama perché c'è negli altri qualche cosa che richiama il nostro amore: perché sono belli, ricchi, colti - si ama per qualche cosa, per trarre un beneficio da questo amore.
Non così è l'amore teologale. L'amore teologale è quell'amore di Dio che è agàpe, cioè amore non soltanto universale, ma preveniente e gratuito, perché è un amore che non conosce un motivo, ma previene qualsiasi motivo. È l'amore di Dio che ci ha amato quando ancora non eravamo. Perché ci ha amato, ci ha creato - ci ha amati dunque prima che fossimo. Non poteva amare in me nulla che potesse attrarre il suo amore: non ero ancora. Amore preveniente contro anche un Nietzsche, il quale dice che l'amore cristiano per il prossimo è in fondo amore di risentimento, è la reazione del debole di fronte al forte. I forti, i violenti opprimono - il cristiano che non ha la forza, che è un povero schiavo, in che modo reagisce alle sferzate, alle persecuzioni? Con l'amore. Ma è un modo di reagire, dice Nietzche. Non è invece un modo di reagire perché chi ama, nel Cristianesimo, ama prima ancora di essere perseguitato, prima di essere amato. Io non amo perché sono amato o perché sono odiato - amo precedentemente a tutto, il mio amore non è una reazione né una risposta. Quando si ama Dio è sempre una risposta, perché Dio ci ha amati per primo, come dice San Giovanni. Quando amiamo cristianamente il prossimo non amiamo mai in risposta di quello che riceviamo da lui, né lo amiamo perché siamo odiati o perché siamo amati: lo amiamo come noi stessi, senza misura, perché se il mio amore è teologale non metto una misura al mio amore per il prossimo, lo amo sempre per nulla, senza pretendere nulla. Non è un trarre a me gli altri, è un donarmi a loro. Come l'amore di Dio: agàpe, dono di sé. Chi è il nostro prossimo? Tutti gli uomini senza distinzioni, perché tutti gli uomini Dio vuole salvi.
L'amore fraterno non è davvero qualcosa di diverso dall'amore del prossimo: è sempre questo amore teologale, ha certo sempre i medesimi caratteri. Ma ha anche qualcosa di diverso.
L'amore del prossimo di per sé non intende la risposta, la reciprocità dell'amore. Io posso e debbo amare anche il più grande farabutto - compromettere anche la mia stessa salvezza eterna, donare tutte le mie cose, il mio corpo, la fatica, compromettere la mia stima... ma non è detto che questo mio amore sia corrisposto, può darsi anche che io ottenga come risultato di essere perseguitato o anche ucciso. Non c'è davvero amore reciproco qui. Ma nella Chiesa l'amore del prossimo esige l'amore reciproco, perché non soltanto sono io cristiano che amo, ma amo un cristiano il quale deve amarmi. L'amore diviene reciproco. Il pericolo dell'amore reciproco è che esso diventi naturale ed umano, che si ami cioè nella misura che siamo amati. Che l'amore venga corrisposto è un fatto naturale, necessario direi nella Chiesa e nella comunità religiosa, ma bisogna sempre stare attenti a mantenere la piena purezza dell'amore.
Voi dovete amarvi fra di voi, ma non dovete pretendere nello stesso tempo di essere amati - dovete essere amati senza pretenderlo, non amare in forza della risposta degli altri, non amare gli altri in forza dell'amore che ottenete. Voi dovete certo ottenere, eppure non avete da chiedere, non potete esigere, perché nel medesimo istante che voi esigete una risposta, il vostro amore cessa di essere gratuito, cessa di essere l'amore di Dio che vive nei vostri cuori.
L'amore reciproco ha un suo esempio, direi una sua causa esemplare nell'amore delle divine Persone. La carità cristiana non è altro che la partecipazione nostra alla vita di Dio. Ora, nell'amore del prossimo, l'uomo vive l'amore di Dio per tutte quante le creature. Per questo il nostro amore si rivolge a tutti, anche ai cattivi. Però, Dio è causa esemplare del nostro amore, più ancora che nel fatto che Egli ami gli uomini, nel fatto che Egli ama Se stesso. La causa esemplare dell'amore soprannaturale io la vedo, certo, nel fatto che Dio ci ama, ma prima ancora nell'amore onde Egli si ama. È in questo amore onde Egli si ama che io devo vedere le ragioni, la grandezza, il modo di amare.
Come Dio si ama?
Qual è la vita delle divine Persone? È il dono totale, eterno di Sé da parte di ogni Persona divina all'altra Persona correlativa, in tal modo che il Padre dona tutto Se stesso al Figlio, il Figlio dona tutto Se stesso al Padre. Il Padre in Sé è come non fosse, il Figlio in Sé è come non fosse, perché è tutto per l'altra Persona correlativa, nulla mantiene per Sé. Quello che manterrebbe per Sé non sarebbe più Dio, perché ogni Persona divina è pura relazione di amore. Avanti di essere Figlio il Figlio non è, avanti di essere Padre il Padre non è.
Ciascuno di noi nell'amore fraterno dovrebbe vivere l'amore stesso di Dio, dono totale di sé all'altra persona, e questo vuol dire donare agli altri tutto quello che abbiamo, beni tempo, capacità, lavoro, comprensione, affetto, stima..., tutto, senza limiti. In tanto si vive (perché la vita del cristiano è amore) in quanto effettivamente ci si dona, in quanto ciascuno di noi vive il suo rapporto di amore con l'altro fratello in un dono totale di sé. È un impegno grande che spaventa.
Nella misura che siamo nella Chiesa, dobbiamo vivere questo amore, che è l'amore trinitario: vivere l'amore stesso di Dio in un dono continuo di sé al proprio fratello, in un dono però che è anche un continuo ricevere.
C'è una certa carità paternalistica per la quale noi si vuole tutto donare, ma nulla ricevere: giustamente il mondo oggi reagisce contro questa concezione della carità. Della carità cristiana, a volte, noi diamo un esempio molto sbagliato, diamo l'esempio della carità come beneficenza. La carità invece se importa questo dare, importa anche questo ricevere. Giustamente il popolo sente la necessità che il ricco rispetti la dignità del povero; la dignità del lavoro, di quello che il povero può dare in modo che tanto l'uno che l'altro sentano nello stesso tempo e di donare e anche di ricevere e sentire che quello che riceve dall'altra parte non è meno di quello che dona.
Il Padre dona tutto Se stesso al Figlio, ma il Figlio dona tutto Se stesso al Padre, e il dono è identico, è uno. Così fra noi. Se io do quello che posseggo, per esempio questi discorsi..., devo sentire che il vostro dono - la vostra attenzione, la vostra comprensione - è altrettanto grande, grande come quello che vi do io. Se io faccio del paternalismo e credo di essere io soltanto a donare e non voglio ricevere nulla da voi, non vivo il vero amore fraterno, non agisco da cristiano.
Siamo tutti sul medesimo piano: è un donare ed è un ricevere. Dare totalmente, dare tutto quello che abbiamo, tutto quello che siamo. Uno può dare la sua povertà, che è un dono grande come la ricchezza di un altro; uno può dare la sua semplicità, che è un dono grande come la cultura di un altro. Si è sul medesimo piano. Il Figlio non è inferiore al Padre, né il Padre al Figlio.
Noi siamo fratelli.
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